Da dove partire per raccontare questa storia, partiamo dalla fine, la fine dell’Unione Sovietica.

È il 1991. Il momento storico è drammatico. Si sentono, ancora rimbombanti nell’aria, i tonfi provocati dai cocci del muro di Berlino, abbattuto solo due anni prima. Nei programmi di risanamento economico, politico e sociale dell’Unione Sovietica, la Perestrojka è la strada da seguire.

La manovra voluta da Michail Gorbaciov, non porta risultati: è troppo lenta. La popolazione è stremata dalla crisi economica il graduale abbandono del socialismo ha gettato il paese nel baratro. La gente è in strada, chiede l’elemosina.

All’interno dell’URSS, nuove forze che non si riconoscono più negli ideali del comunismo, delineano il loro progetto di una nuova Unione Sovietica in forma di una confederazione di repubbliche indipendenti e dotate di autogoverno totalmente decentralizzato. Il loro capo è Boris Yeltsin, classe 1931, neoeletto Presidente della Repubblica Russa e nemico politico di Gorbaciov e del PCUS, dal quale è fuoriuscito appena un anno prima.

PUTSCH DI AGOSTO

Chi si fosse trovato a sintonizzare la televisione sui tre canali nazionali, nelle prime ore del 19 agosto 1991 a Mosca, avrebbe potuto ascoltare un’unica composizione musicale (il Lago dei cigni di Čajkovskij) ripetuta in loop, circostanza che, in ogni epoca e latitudine, è in grado di evocare presagi sinistri.

Di buon mattino giunse l’annuncio ufficiale: ”In rapporto all’inabilità di Mikhail Serghievich Gorbaciov per motivi di salute di svolgere le sue funzioni come Presidente dell’URSS, ho assunto le funzioni di Presidente dell’URSS a partire dal 19 agosto sulla base dell’art. 127 della Costituzione dell’URSS. Gennadij I. Janaev, Vice­Presidente dell’URSS”; un comunicato successivo esplicitò che in alcune parti dell’URSS era stato imposto lo stato di emergenza e, allo scopo di dirigere il paese, era stato costituito un comitato, di cui facevano parte, tra gli altri, il Presidente del KGB Krjučkov, il Primo Ministro Pavlov, il Ministro dell’Interno Pugo, il Ministro della Difesa Jazov, il ”facente funzioni di Presidente dell’URSS, Janaev.

Tale evento si inseriva in una fase estremamente critica della storia sovietica: una crisi economica feroce, strutturale e di lungo periodo, che non poteva più essere tenuta nascosta proprio a causa dei processi di glaznost e perestrojka – trasparenza e ristrutturazione – introdotti dal Presidente Gorbaciov, aveva indebolito il potere centrale sia sul fronte internazionale sia su quello interno, favorendo il rinvigorirsi di istanze nazionaliste nelle repubbliche sovietiche, che, una dopo l’altra, si proclamavano indipendenti.

Nelle parole di uno dei testimoni degli eventi del 19 agosto, Gennadij Burbulis, all’epoca braccio destro di Eltsin, “fu subito chiaro che si trattava di un tentativo disperato di impedire la firma del trattato, prevista per il giorno dopo. Ma questa era l’unica cosa chiara. Gli americani che seguivano gli eventi sulla CNN sapevano quel che succedeva in Russia più di quel che ne sapevano i russi; i conduttori dei notiziari a Mosca si limitavano a leggere la dichiarazione rilasciata dagli autori del colpo di stato”.

Questi ultimi, tuttavia, apparvero da subito deboli nella comunicazione dei propri intenti e privi di carisma, e il previsto supporto popolare al putsch non vi fu: per due giorni Mosca fu capitale di uno spettacolo surreale, con carri armati per le strade che non sparavano, né intervenivano, mostrando una tacita solidarietà con i resistenti. Le piazze e le vie delle città più importanti si riempirono di persone che protestavano, bloccavano le forze armate, inscenavano manifestazioni spontanee.

Gorbaciov venne liberato, il 22 agosto tornò nella capitale, ma il centro del potere era adesso la Casa Bianca con Eltsin, non più il Cremlino; naufragata ogni possibilità di un nuovo trattato dell’Unione, il 24 egli si dimise dalla carica di Segretario del PCUS: aveva “perso i comandi” della stessa URSS, che, agli occhi del mondo intero, rappresentava, mentre stava crescendo la popolarità di Eltsin, peraltro con il plauso di tutto l’Occidente.

Pochi giorni dopo fu sciolto il PCUS. Il 25 dicembre Gorbaciov rassegnò le dimissioni anche da presidente dell’URSS, la bandiera rossa sul Cremlino venne sostituita da quella della Federazione Russa e il 26 dicembre l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche cessò formalmente di esistere.

LA NASCITA DEL CAPITALISMO RUSSO

Una volta avuta la meglio nel 1991 sul Putsch di agosto, Boris Yeltsin fu in grado di mettere mano liberamente alle numerose e gravose questioni che all’epoca affliggevano la neonata Federazione russa, tra cui una situazione economica

Yeltsin aveva pochi dubbi sulla ricetta da applicare per uscire dalla grave crisi economica russa: smantellare integralmente l’economia pianificata per sostituirla in tempi estremamente brevi con un sistema basato sulla proprietà privata e sul libero mercato, ricetta da attuare con una terapia shock.

A tal fine, il primo ministro della Federazione russa Egor Gajdar diede inizio nel 1992 alle privatizzazioni di massa di quello che restava dell’apparato economico sovietico.
Vennero liberalizzati l’80% dei prezzi alla produzione e il 90% dei prezzi al dettaglio, il commercio estero venne anch’esso liberalizzato con l’imposizione di un’aliquota fissa del 5% e con la cancellazione dei controlli quantitativi sull’importazione.

Gli effetti delle riforme di Yeltsin al 1992 furono disastrosi: il pil crollò del 14%, il deficit arrivò al 6% del pil, l’inflazione toccò un picco del 2500% e la produzione industriale diminuì del 25%. Nel frattempo, la privatizzazione proseguì spedita e dal 1992 al 1994 vennero privatizzate il 90% delle piccole imprese e il 70% di quelle grandi.

IL GOLPE DI ELTSIN, LA DUMA VIENE BOMBARDATA

Quel che accadde a Mosca tra il 2 e il 4 ottobre del 1993 è senza dubbio uno degli eventi più tragici e dimenticati della storia contemporanea. In quei giorni le forze armate, su ordine di Boris Eltsin, bombardarono la Duma, ovvero il Parlamento russo, colpevole di essersi opposto alle manovre illegali e incostituzionali del governo da lui presieduto.

I parlamentari – interpreti del profondo malcontento popolare nei confronti della situazione in cui versava la Russia post-sovietica – avevano infatti osato opporre resistenza ai piani di scioglimento della Duma decretati da Eltsin.
Per tutta risposta, essi vennero dapprima accerchiati dai militari, e infine bombardati da parte di unità dell’esercito a lui fedeli.Scontri violentissimi tra le forze dell’ordine e le oltre 100.000 manifestanti che sostenevano in piazza le ragioni dei deputati “ribelli” fecero centinaia di vittime. Decine di parlamentari persero la vita sotto le bombe.

Come Pinochet nel ‘73, una cricca di usurpatori usava la violenza militare per soffocare le legittime pretese democratiche di chi reclamava il ritorno al socialismo. Si tratta di un vero e proprio colpo di Stato, necessario per imporre una controrivoluzione aborrita dal popolo, ma necessaria alla nascente borghesia ladra russa. La dittatura militare, che analisti pigri e disinformati imputano all’URSS, in verità prese corpo dopo la caduta dell’URSS, sulla base economica del capitalismo nascente, e caratterizzò la natura del potere russo degli anni ‘90.

Il capitalismo non si ferma, lo smantellamento del socialismo

Le risorse minerarie ed energetiche russe passarono di proprietà delle banche per delle cifre irrisorie. Le ricchezze nate da questa operazione diedero vita alla casta degli oligarchi, che nel 1996 si accordarono per sostenere la campagna elettorale di Yeltsin. Mentre pochi si arricchivano, la maggior parte dei russi vide un netto peggioramento delle proprie condizioni di vita: la disoccupazione nel 1996 riguardò il 10% della popolazione, mentre il pil rimase al 3%, nel contesto di un’inflazione che disintegrava i risparmi dei cittadini (nel 1996 era al 22%).

Al 1995 il 39% dei russi viveva sotto il livello di povertà, dai 2 milioni del 1988 i poveri passarono a essere 57 milioni appena sette anni più tardi. Inoltre, la distribuzione del reddito si alterò al punto da rendere la Russia degli anni Novanta uno dei paesi col maggior tasso di disuguaglianza.

Nel 1994 l’aspettativa di vita alla nascita era scesa a 64 anni. Dopo il 1996 in Russia fece la sua comparsa il baratto, che in Europa non si vedeva in modo così massiccio dal crollo dell’Impero romano.

Nel 1998 il paese venne colpito da una grave crisi finanziaria che segnò definitivamente il fallimento delle riforme di Yeltsin, provocata dalla crisi economica delle tigri asiatiche e dal crollo del prezzo del petrolio che a sua volta innescò una brusca diminuzione dell’entrata di valuta straniera in Russia, causando difficoltà nel tasso di cambio.
Il debito statale, finanziato da titoli di Stato a breve termine, divenne presto insostenibile a causa del tasso di interesse sempre più alto, mentre l’inflazione nel 1998 salì all’84%. I sussidi pubblici all’agricoltura crollarono dell’80% nel corso dell’anno.

Ad agosto venne svalutato il rublo e dichiarato il default sul debito interno, oltre che una moratoria di 90 giorni su quello estero.

Nel 1999, al termine della presidenza di Yeltsin, il 40% dei russi viveva sotto il livello di povertà, il 12% era disoccupato, e la criminalità e il tasso di omicidi erano decisamente peggiorati.

Memoria a orologeria

L’ECONOMIA RUSSA NEGLI ANNI DI YELTSIN (1991 – 1999)

Tentato colpo di stato a Mosca il 19 agosto 1991