
“Tutti i partiti rivoluzionari e di opposizione sono sconfitti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, sfacelo, tradimento, pornografia invece di politica. Si accentua la tendenza all’idealismo filosofico; si rafforza il misticismo come copertura dello spirito controrivoluzionario”.
(Lenin “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” – 1920)
Le aspre ed inedite difficoltà (minimizzo) dei nostri tempi, in Italia, riportano prepotentemente alla mia memoria vecchie letture. Mi viene da pensare che Lenin -parlando di noi, ora- direbbe più o meno:
“La questione essenziale è chiara e inconfondibile. Chi ha a cuore la causa del partito comunista -ossia la causa del proletariato, del rilancio vittorioso della lotta di classe, della salvaguardia della pace e della natura, del socialismo- deve necessariamente (prima di tutto) trovare il modo di attingere le proprie forze tra vaste masse proletarie (in particolare giovani) le quali, al momento, non hanno alcun interesse per la lotta politica e ancor meno simpatia per i comunisti”.
Nel frattempo, questa mi sembra la premessa migliore per affrontare tre problemi concreti.
1) Come facciamo a diventare tanti, molti di più di quanti siamo adesso, nel volgere di alcuni anni? Mi riferisco alla rapida espansione di massa del consenso, alla crescente capacità di interazione con molti gruppi e settori sociali oppressi e sfruttati, ad un incessante e cospicuo proselitismo. In particolare, va centrata la questione giovanile, un vero disastro nell’attuale situazione mentre uno dei nostri obiettivi strategici dovrà essere, invece, la rigenerazione della forza comunista tra la gioventù proletaria odierna e quella futura.
2) Come si fa a realizzare tale prospettiva con gli attuali rapporti di forza? Ossia come andiamo avanti in una situazione che vede la massima disparità tra le nostre disponibilità e le risorse su cui può contare l’avversario. Parlare di comunismo può anche essere facile ma servono capacità scientifica, coerenza strategica e abilità tattica per non essere risucchiati dal minoritarismo o dall’opportunismo.
3) Contro chi vogliamo lottare, chi vogliamo “attaccare”? Questa domanda, apparentemente settaria e cattiva, andrebbe in realtà spiegata per un verso con un richiamo al materialismo dialettico e per l’altro ad una delle principali contraddizioni che hanno generato il bilancio disastroso della sinistra dei nostri tempi. Comunque non ce la possiamo cavare con risposte generiche (ancorchè giuste) tipo l’imperialismo, i poteri forti, i pericoli di guerra; proprio come un dottore non può rispondere ad un paziente che soffre per una determinata malattia dicendo che egli vuole combattere i malanni, in generale. Chi non vuole avere “nemici”, chi non vuole dare “fastidio” a nessuno non può essere un rivoluzionario e non riuscirà mai a far crescere un Partito Comunista.
Si tratta di obiettivi e compiti molto ardui, assai complicati da perseguire: molto difficile poter “spadellare” un piano preciso e definito, senza un approccio scientifico, ossia senza capire perché (e da quando) ci troviamo in questa situazione, come rimuovere le cause che l’hanno generata, come avviare concretamente la risalita dall’abisso (di consenso e di tanto altro) nel quale siamo precipitati.
Si tratta di uno sforzo gigantesco, da affrontare gradualmente, riflettendo (in un primo momento) anche separatamente su lati diversi della questione, a partire dall’analisi della storia recente, fino a definire un programma organico anche di lungo periodo.
Un’impresa che sembra titanica considerando le nostre risorse attuali e che richiede tentativi ed esperimenti, senza escludere eventuali errori, ripensamenti e correzioni.
Alcune esortazioni alla cosiddetta “unità dei comunisti” mi sembrano più dei tentativi di eludere questi problemi che non un modo per affrontarli e risolverli. Si manifestano, invece, molti tentativi o tendenze che impediscono di affrontare uniti questi compiti che la Storia -“qui e ora” si potrebbe dire- ci pone.
“(…) la funzione degli “intellettuali” consiste nel rendere inutile l’opera di particolari dirigenti intellettuali”.
(Lenin, dal suo scritto contro i populisti).
“…oggi si pestano l’un l’altro i piedi sognando “l’unità” e risuscitando un cadavere. Il bolscevismo ha posto le fondamenta ideali e tattiche della III Internazionale che è realmente proletaria e comunista…”
(Lenin “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky” -autunno 1918)
La cosiddetta “unità dei comunisti” è un imbroglio. E’ una vera sfortuna, che essa è diventata l’aspirazione più profonda della grande maggioranza dei pochissimi compagni e compagne rimasti politicamente attivi o impegnati nel dibattito comune.
– Come mai tutti gli esperimenti di “unità dei comunisti” o delle sinistre o simili -quanto meno nell’ultimo quarto di secolo- sono miseramente naufragati, hanno prodotto più divisioni di quelle che avevano trovato e causato una notevole perdita di forze e consensi?
Chi parla di “unità dei comunisti” dovrebbe dare una risposta coerente e convincente (se non scientifica) perché, prima di discutere di questo entusiasmante obiettivo, occorre garantire che non nasconda -più o meno maldestramente o inconsapevolmente- la riedizione di qualcuno dei tentativi suaccennati.
– L’evidenza dimostra che le compagini o i singoli che invocano “l’unità dei comunisti” lo fanno subito dopo una scissione o l’abbandono di una precedente appartenenza (la quale, spesso, era a sua volta un esperimento dello stesso genere).
Il pericolo che “l’unità dei comunisti” sia una sorta di amnistia o di condono per “coprire” ogni frazionismo o scissione o per evitare bilanci, autocritiche e correzioni, se non addirittura per giustificare trasformismo di vario tipo o gravità, è sotto gli occhi di tutti.
– “Né unità senza princìpi, né teoria fine a sé stessa”. Dovrebbe essere la guida dell’aspirazione di tante compagne e compagni. Ritengo inoltre che l’unità debba realizzarsi innanzitutto tra se stessa e l’identità politica (o gli ideali o il programma).
Ho l’impressione che negli ultimi decenni la vicenda che ci riguarda sia stata caratterizzata non solo dalla separazione ma perfino dalla contraddizione tra questi elementi: unità e principi (o teoria, ecc.). Sicché, come in un carosello vertiginoso, abbiamo avuto innumerevoli scissioni (o separazioni o contrasti) per motivi -diciamo così- politici, alternati alla rinuncia o all’abbandono di tali posizioni per inseguire velleità unitarie.
L’unità non può essere antagonista dei principi e viceversa.
In definitiva, bisogna chiarire che “l’unità dei comunisti” non è l’alternativa -o la negazione- della strategia, semmai deve esserne una componente ma non indipendente da essa. La mia impressione (forse fallace) è che da qualche decennio non c’è più strategia per i comunisti, in Italia, e non vorrei che “l’unità dei comunisti” sia solo una ricetta consolatoria per coprirne la mancanza. Chi vuole veramente la nostra unità deve prima impegnarsi nell’elaborazione di una strategia, per il Partito di oggi e del futuro.
Un insieme, spesso confuso o contraddittorio, di tattiche improvvisate non sono una strategia e tanto meno lo sono il ridursi all’autoamministrazione, trascinandosi da un espediente all’altro, da una scadenza all’altra col solo obiettivo di giustificare la propria stanca esistenza. Oppure vogliamo unirci per rimanere pochi, isolati dalle masse e scollegati dalla realtà?
– Noi abbiamo un ben preciso (e ricchissimo) patrimonio storico e teorico, da cui deriva una chiara definizione del concetto di fronte, fronte unito dei lavoratori (o del proletariato) e fronte popolare (antifascista). Essi si inquadrano nella più classica concezione dei vari livelli (quindi delle diverse funzioni e prerogative attribuite a ciascuno di essi, le quali non devono assolutamente essere confuse o invertite tra loro) della politica e della tattica unitaria: unità del Partito (da curare come la pupilla dei propri occhi), unità del movimento operaio, unità delle forze democratiche ed amanti della pace. Tutto ciò si completa -ricorrendo specifiche circostanze- con la politica dei fronti di liberazione nazionale (come fu il nostro CLN) o di unità con settori della borghesia patriottica in contrasto con altri di borghesia imperialista.
La parola d’ordine “unità dei comunisti” è talmente inconcludente da far deragliare in molte occasioni. Non è una questione nominalistica se molti confondono le prerogative e i compiti di unità o fronti, che invece dovrebbero essere ben distinti. Non si può ridurre -solo per fare qualche esempio- la questione del Partito ad una coalizione elettorale né ci si può illudere di conferire ad una tattica unitaria in difesa della pace le prerogative che sarebbero invece appropriate per un fronte unito di classe.
Rimane per me un mistero comprendere che cosa si intenda per fronte o “unità delle forze anticapitaliste”. In ogni caso, l’esempio più macroscopico di totale ignoranza della concezione e dell’esperienza comunista delle tattiche unitarie e delle alleanze, fu di coloro che -nel 2008- ebbero il coraggio di dire che il povero “Arcobaleno” era l’equivalente moderno del Fronte Popolare del 1948!
– Alcune interpretazioni della “unità dei comunisti” più facilone sono anche il portato della progressiva disgregazione e confusione ideologica ed organizzativa di questo quarto di secolo. Per esempio, c’è chi insegue l’utopia di ridurre ad una tutte le sigle in cui c’è la parola “comunista” (senza neanche accorgersi che in alcuni casi essa è il sostantivo mentre in altri, ben diversi, è un aggettivo)
Allora discutiamo ed avviamo la strategia costruendo la più ampia, chiara e duratura unità per essa. L’illusione, invece, di definire una strategia in funzione di una non meglio precisata “unità” è esattamente una delle principali ragioni per cui ci siamo ridotti nelle condizioni attuali e quindi, semplicemente, il tentativo di resuscitare un cadavere anziché trarre tutte le lezioni necessarie dal bilancio della nostra recente storia.
– Infine, c’è la questione che più di ogni altra mostra come le mie osservazioni non siano nominalistiche o questioni di lana caprina: chi riguarda “l’unità dei comunisti”? E’ possibile dare una definizione individuale (estemporanea) del comunista?
Nel linguaggio corrente, si definiscono comunisti tutti quelli che in qualche caso hanno votato per candidati così indicati oppure quanti dichiarano apertamente di esserlo e talvolta sostengono pubblicamente le attività o le posizioni di un partito.
La domanda da rivolgere ai fautori di una non meglio precisata “unità dei comunisti” è se si riferiscono a un partito o ad altro: nel primo caso, ciò sarebbe l’equivalente della squadra di calcio e non dei semplici tifosi (che non intervengono nel determinare l’esito della partita o lo fanno solo indirettamente) o di altri solo astrattamente “affezionati” alla squadra.
Se vogliamo essere nel solco del materialismo dialettico (rapporto tra coscienza e materia) e del marxismo-leninismo la risposta è una sola: in questo specifico caso, i comunisti “sono i calciatori”.
Torniamo alla domanda: come si può definire -individualmente- un comunista? Basta ritenere di esserlo? Qualsiasi persona che si agita contro il governo e il padronato è comunista? Oppure sarebbero comunisti solo coloro che hanno letto Marx, Lenin, Gramsci, ecc.?
Per la nostra filosofia si è ciò che si fa e non ciò che si legge; quindi sarebbe comunista, semmai, chi APPLICA CONCRETAMENTE il contenuto delle opere di Marx, Lenin, Gramsci.
Ci sono milioni di compagne e compagni, spesso analfabeti come i minatori neri sudafricani, tanti nostri Partigiani o contadini cinesi che non dovrebbero essere considerati comunisti (stando alla suddetta ipotesi) dato che quando sono stati EFFETTIVAMENTE combattenti rivoluzionari, militanti dei propri Partiti avevano letto -suppongo- ben pochi libri riguardanti la nostra teoria.
Ritengo sia già sufficientemente chiara la “devianza”, anche grave alla fine, che può derivare da confusione o indifferenza rispetto a questo tema.
Anche perché la nostra concezione del Partito è che esso è la fusione del movimento operaio con il comunismo scientifico, mentre con i pericoli degenerativi di cui sopra, si riduce il Partito ad un presunto “comunismo scientifico” il quale, inevitabilmente, deve poi (nel migliore dei casi) dirigere gli operai (ignoranti!) e fargli fare la rivoluzione.
Non è un caso che molti compunti conoscitori italiani di molte opere della nostra letteratura, si dimentichino immancabilmente di una sola paginetta: quella in cui c’è scritto che la liberazione della classe operaia ha bisogno dell’opera della classe operaia stessa!
Ancora una volta si confonde il Partito rivoluzionario del proletariato con un circolo accademico di intellettuali! Perciò, curiosamente, oggi sono idonee a criticare molte posizioni correnti le tesi di Lenin contro il terrorismo, non perché ci sia chi vuole commettere violenze o compiere reati, anzi, tutt’altro! Però la critica alla pratica di fare da soli, di limitarsi a singoli atti fini a se stessi, slegati gli uni dagli altri, adatti anche a gruppi piccolissimi se non a singoli, con il velleitario scopo di accendere l’indignazione dei lavoratori (quando non ce ne sarebbe bisogno, vista la loro esperienza quotidiana) è appropriata anche a molti compagni del nostro tempo, benchè pacifici come innocui curati di campagna!
Senza farla troppo lunga, la tesi che propongo è che l’unica possibilità di definizione individuale, non estemporanea, di comunista è che esso sia il militante di un partito comunista ovvero -in mancanza di questo- di un’organizzazione che lotta per la costruzione (o ricostituzione) del Partito, secondo criteri coerenti con il nostro patrimonio storico e teorico.
Sotto questo profilo, dunque, “l’unità dei comunisti” è… il Partito ovvero (nel nostro caso) la lotta per riaverne uno forte e autentico. Pertanto la parola d’ordine (“unità dei comunisti”) è confusionaria e rischia di provocare danni, perché siamo ritornati nel “regime dei circoli”, contro cui lottava Lenin e in definitiva Gramsci e i fondatori del nostro Partito, perché il “regime dei circoli” è un circo Barnum incapace di essere incisivo o vittorioso.
– Inoltre, simili parole d’ordine inconcludenti a volte si intrecciano con altre ancor più insussistenti e contraddittorie: è il caso (non per niente di origine troschista o semitroschista) di una parola d’ordine ancor più confusionaria e deviante -perciò usata in tante fogge e varianti- quale quella di “unire le lotte” usata spesso dai suoi promotori, senza dirlo, per negare la centralità e la priorità della costruzione del Partito.
Tale parola d’ordine, non a caso, ha un bilancio perfino peggiore di quello “dell’unità dei comunisti”. Perché “unire le lotte” non può essere un’ammucchiata movimentista a cui puntano i teorici di questa linea, così come unire ciò che mangiamo non è l’atto di ingozzarci riempiendo la bocca e l’esofago indiscriminatamente di ogni genere di ingrediente: essa non è solo “mangiare” in continuazione ma è, invece, il processo della digestione e si realizza dunque dandosi un apparato digerente.
È il processo che trasforma i nostri pasti in energia e sostanze ricostituenti per i nostri organi che unisce -ed anzi valorizza trasformandolo- ciò che mangiamo (e non è necessario né utile che sia tanto, anzi è nocivo mangiare per mangiare). Allo stesso modo ad “unire le lotte” -in definitiva- è il Partito che le valorizza trasformandole in mutamento dei rapporti di forza con la classe avversaria.
“L ’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe. Il Partito comunista, riunendo in sè la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per la emancipazione rivoluzionaria del proletariato; esso ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali di azione e di dirigere nello svolgimento della lotta il proletariato”.
(dall’art. 1 dello Statuto del PCdI del 1921)
All’epoca della Rivoluzione d’Ottobre, gli opportunisti, ovvero gli agenti della borghesia in seno al movimento operaio, per boicottare la grande rivoluzione proletaria dissero che essa non era conforme alle tesi de Il Capitale di Marx Perciò il compagno Gramsci scrisse un testo titolato “Una rivoluzione contro il Capitale”. Era una brillante ed acuta difesa dei bolscevichi e -al tempo stesso- anche de Il Capitale, strumentalizzato con interpretazioni ottuse e sterilmente dogmatiche.
Chi scrive, è contro “l’unità dei comunisti” come Gramsci era contro la Rivoluzione dei Soviet (o contro Il Capitale).