
Lo stadio Poljud non è mai stato teatro di grandi trionfi. Gli anni d’oro dei croati non hanno certo coinciso con quelli del nuovo stadio cittadino. Eppure la storia ha deciso di passare proprio per quel campo di gioco. Il 4 maggio del 1980 si sta disputando una delle più importanti gare della prima divisione jugoslava.
Da una parte i padroni di casa dell’Hajduk, dall’altra gli acerrimi nemici di Belgrado, la Stella Rossa. I dalmati sono campioni in carica, ma sono fuori dalla lotta per il titolo, i serbi invece vogliono ritornare sul trono dopo qualche tempo lontano dalla vetta (e alla fine della stagione ci riusciranno).
Le tensioni non si esauriscono sul terreno di gioco. La Torcida Split mette a disagio le forze dell’ordine. La repressione non ha funzionato e si temono nuovi scontri, tenuto anche conto del fatto che gli avversari non sono una squadra qualunque, la rivalità è accesissima. Il primo tempo è vibrante, sia in campo che sugli spalti. Tutta la nazione segue la gara che viene trasmessa anche in televisione.
Mancano quattro minuti al duplice fischio, quando tre uomini in borghese entrano in campo.Che sta succedendo? I tre si avvicinano all’arbitro, e gli sussurrano qualcosa all’orecchio. La reazione del direttore di gara è sbigottita. Immediatamente i giocatori si avvicinano. Entrano anche i dirigenti. Sul Poljud cala il silenzio. Non vola una mosca. Sono tutti in attesa di una comunicazione.
Tocca al presidente dell’Hajduk Ante Skataretiko dare la notizia: “La partita è sospesa, il compagno Tito è morto”.I nervi non reggono più. Calciatori capaci di giocare per novanta minuti sotto le peggiori minacce da parte dei tifosi avversari crollano a terra. Zlatko Vujović sulle rive dell’Adriatico è considerato una bandiera, ma quando ascolta con le sue orecchie che Tito se n’è andato, sente le sue ginocchia farsi deboli, e si accascia a terra.
Il direttore di gara è un bosniaco di nome Muharemagic. Non proprio un ragazzino. Eppure non ce la fa neanche lui a mantenere il contegno. La scena è incredibile. I giocatori si radunano a centrocampo. Con arbitro e guardalinee all’altezza del cerchio centrale. I fotografi scattano le foto, ma anche loro sono lenti, perché non riescono a trattenersi e piangono.
Da una parte l’Hajduk in maglietta e calzettoni bianchi, e pantaloncini blu. Dall’altra la Stella Rossa, con la divisa tradizionale a strisce bianco-rosse, calzoncini e calzettoni bianchi. Sono schierati come prima del calcio di inizio. Qualcuno non rispetta gli schieramenti e le squadre si mischiano. C’è un silenzio totale, rotto solo dai singhiozzi di qualcuno che sta piangendo. Non è retorica, ma non ci sono più croati, non ci sono più serbi, né cattolici o ortodossi, c’è solo un popolo che piange per la morte del proprio leader.
Poi tutto lo stadio intona una canzone popolare “Druze Tito mi ti se kunemo, da sa tvoga puta ne skrenemo”, che tradotto suona come “Compagno Tito, te lo giuriamo, non ci allontaneremo mai dal tuo esempio”. Il pianto è collettivo, l’elaborazione del lutto è ancora lontana da venire.
La Jugoslavia non si riprenderà mai più.
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