In Lenin la conoscenza della società era rivolta in ogni momento all’agire che proprio allora era socialmente necessario, perché la sua prassi era sempre la conseguenza necessaria della somma e del sistema delle vere conoscenze accumulate in quel momento. La sua vita è un agire continuo in cui non esiste situazione senza scampo, né per lui né per l’avversario. Perciò il suo metodo di vita è questo: essere sempre preparati all’azione, all’azione giusta.

György Lukács, Lenin

Il vero limite della produzione capitalistica è proprio il capitale, cioè è che il capitale e la sua autovalorizzazione si presentano come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e fine della produzione; che la produzione è soltanto la produzione per il capitale e non invece i mezzi di produzione sono semplici mezzi per il costante allargamento del processo vitale per la società dei produttori.

Karl Marx, Il Capitale, libro III

Chiedersi perché essere comunisti dovrebbe essere naturale per un comunista, eppure è domanda che fa tremare i polsi e mette a disagio per varie ragioni. Tra queste sicuramente pesano come un macigno la caduta dell’Urss, e la storia del comunismo del 900, entrambe ancora non elaborate. Pesa, inoltre, la attuale situazione di difficoltà che, comprensibilmente ma ingiustificatamente, ci schiaccia sul livello della sopravvivenza immediata. Ma c’è anche un’altra importante ragione: definire “il perché” implica sempre definire “il che cosa” e c’è sempre stato un certo “pudore” a definire il comunismo in una scuola di pensiero il cui fondatore si è dichiarato, da subito, contro le definizioni utopistiche da “osteria dell’avvenire”. Eppure, niente sarebbe più sbagliato del pensare che Marx non abbia detto cose fondamentali al proposito e che soprattutto, oggi, sulla scorta di una secolare esperienza pratica, non sia necessario entrare nel merito, portando avanti la riflessione di Marx alla luce degli avvenimenti passati e presenti. Se è vero che non siamo comunisti perché abbiamo letto il Capitale, è altrettanto vero che, se lo siamo in un certo modo, cioè nel senso moderno del termine, è solo perché abbiamo letto il Capitale. E per letto non intendo che ciascun individuo che si riconosca nel movimento comunista lo debba aver letto effettivamente, bensì in una accezione più ampia, nel senso di farlo proprio.

La spinta profonda ed iniziale ad essere comunisti credo che provenga da una insofferenza, da un senso di profonda inaccettazione per quanto vediamo e sperimentiamo ogni giorno nella nostra vita e, per quanto riusciamo a vedere e sentire, nella vita dei nostri simili. E’ il rifiuto dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza, che è tanto più forte in quanto questa ingiustizia e questa ineguaglianza le sentiamo essere ingiustificate, a muoverci. Eppure, molti (per fortuna!) sono coloro che, mossi da una simile intolleranza, operano o ritengono di operare contro l’oppressione, lo sfruttamento, e persino l’ineguaglianza senza per questo essere o dichiararsi comunisti. Seguaci di religioni e confessioni diverse, aderenti a partiti e movimenti filosofici variegati cercano di operare in tal senso.

Nessuno di questi, però, ha la nostra stessa idea di società futura o i nostri stessi metodi di analisi e di intervento sulla realtà o, soprattutto, ritiene che, per risolvere i problemi sociali, sia necessario trasformare la società alla sua radice, cioè a partire dai rapporti di produzione. In effetti, noi non siamo neppure i primi comunisti della storia né il comunismo è stato inventato da Marx. L’aspirazione a ristabilire la situazione di eguaglianza tra gli uomini esistente nello status quo ante il sorgere delle classi, è probabilmente vecchia quanto l’esistenza delle classi stesse. Comunisti erano i primi cristiani, prima che il cristianesimo diventasse instrumentum regni dell’impero romano in crisi. Comunisti erano i seguaci di Thomas Müntzer che nel XVI secolo guidavano le armate contadine contro i principi tedeschi al grido di “omnia sunt communia!”. Comunisti erano gli “uguali” capeggiati da Babeuf, la cui sconfitta chiuse la Rivoluzione francese, suggellando la definitiva affermazione del dominio politico della borghesia. E dal fallimento degli “uguali” scaturì per tutta l’Europa un fiorire di sette, anche grazie all’opera di quel grande pioniere italiano del comunismo che fu Filippo Buonarroti.

Il comunismo moderno, il nostro comunismo, pur figlio delle lotte degli sfruttati di ogni tempo e luogo, è qualcosa di altro e diverso. E’, come disse Marx al momento di costituire la Prima Internazionale, il superamento della fase delle sette e dei progetti utopistici del passato, generosi ma impotenti. Essere comunisti “moderni” è soprattutto la consapevolezza che oggi, per la prima volta nella storia, il comunismo è possibile. Perché oggi l’esistenza delle classi, derivata dallo sviluppo della divisione del lavoro e necessaria allo sviluppo della capacità produttiva del lavoro umano, non solo non è più necessaria, ma è anzi di ostacolo al libero ed ulteriore sviluppo delle forze produttive della società. In buona sostanza, nella fase storica caratterizzata dall’affermazione definitiva del capitale e dalla contraddizione lavoro salariato – capitale si sono create le condizioni per l’abolizione delle classi e quindi dello sfruttamento e dell’ineguaglianza. E’ in questo senso che Marx scrisse: “il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà deve conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.”
Il “presupposto” è il movimento del capitale stesso. Essere comunisti implica, quindi, una specifica concezione del mondo, un determinato metodo di analisi della Storia e della Società e una certa prassi di lotta.

Il comunismo è possibile perché è necessario

Il comunismo è possibile perché è necessario. Il capitalismo produce insieme il massimo di razionalità ed il massimo di irrazionalità, il massimo di ricchezza ed il massimo di povertà, il massimo delle possibilità di sviluppo dell’individuo ed il massimo della frustrazione e dell’oppressione individuale. In nessuna altra società del passato la scienza ha avuto un così grande ruolo e soprattutto un così grande influsso sulla produzione, attraverso la tecnologia. Ma la scienza non permea veramente né la comprensione della vita, né la gestione complessiva della società. Eppure il modo di produzione capitalistico si presenta come razionale. Quanto più l’azienda è grande tanto più è governata da un piano razionale in base al quale viene stabilita la suddivisione del lavoro. L’obiettivo di tale pianificazione è ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione della merce. Per ottenere questo risultato la forza produttiva del lavoro viene incrementata e vengono introdotte le macchine.

Ma la riduzione del tempo di lavoro necessario e l’introduzione di macchine e tecnologie sempre più avanzate non si traduce in maggiore ricchezza e minore fatica per tutti. Il principio del movimento del capitale, infatti, non è la soddisfazione dei bisogni umani ma la massimizzazione dei profitti, l’accumulazione fine a se stessa, attraverso l’aumento dello sfruttamento del lavoratore, mentre la riduzione del tempo di lavoro necessario è finalizzata alla competizione tra i capitali. Così alla razionalità della divisione del lavoro nelle singole unità di capitale corrisponde l’irrazionalità anarchica della divisione generale del lavoro nella concorrenza che caratterizza il sistema economico complessivo. E il sogno di una umanità libera dalla fatica e dal bisogno si traduce in un incubo per la maggior parte della popolazione: sovrapproduzione di mezzi di produzione, di merci, di lavoratori, orari di lavoro che si allungano, intensità del lavoro che aumenta. Si arriva infine al paradosso estremo: quanto maggiore è la ricchezza accumulata tanto più grande è la povertà prodotta. E si assiste alla crescita della povertà in mezzo all’abbondanza. Anzi, il fenomeno dei “poveri che lavorano” non è un effetto imprevisto e accidentale dell’economia del capitale, ma ne è ragione d’esistenza, obbligo ai bassi salari e causa di alti profitti. Fatti questi di cui abbiamo testimonianza proprio nel paese più ricco e potente del mondo, gli Usa, dove, accanto ad una immane ricchezza, si allungano le file dei senza casa e cresce una umanità lavoratrice senza diritto alla salute, ad una vecchiaia dignitosa, ad una infanzia educata e protetta

Il lavoratore, però, col capitale non perde solo il controllo sulla ricchezza prodotta, ma anche sulla sua stessa attività lavorativa, sempre più parcellizzata, ripetitiva, esecutiva, mentre la razionalità della pianificazione aziendale si manifesta come costrizione, dispotismo sui lavoratori. Non sono gli uomini, i produttori, a dominare le forze produttive, controllandole e dirigendole, ma sono le forze produttive a dominarli, come se, anziché il prodotto dell’attività umana, fossero forze naturali che incombono, minacciando di scatenarsi con tutta la loro furia cieca sulla società. Come avviene in tutta la sua devastante evidenza proprio nel corso delle crisi che immancabilmente e periodicamente scuotono la società del capitale ed il cui superamento è possibile, entro i rapporti di produzione dominanti, solo attraverso immani distruzioni di ricchezza, che ristabiliscono le condizioni per la ripresa del processo d’accumulazione. La distruzione di ricchezza diventa così necessità, allo scopo di produrre altra e sempre più grande ricchezza. Una logica irrazionale anima il capitale, la quale raggiunge il suo apice nella guerra, fenomeno sorto con la civiltà e le classi, ma che con il capitalismo assume una necessarietà e una violenza mai viste e crescenti. E’ in antitesi alla natura caotica, irrazionale e indipendente dal controllo dei produttori che il comunismo è “dicibile”.

Il comunismo si sostanzia proprio come razionalità, pianificazione e controllo delle forze produttive

Il partito marxista-leninista(di Che Guevara)

Il partito marxista-leninista è un insieme di persone fuse da una comunanza di idee che si uniscono per dar vita alle concezioni marxiste, vale a dire, per portare a termine la missione storica della classe operaia. Un partito non può vivere isolato dalle masse, ma deve mantenersi in permanente contatto con esse; deve esercitare la critica e l’autocritica ed essere molto severo riguardo ai propri errori; non deve fondarsi solamente su concetti negativi di lotta contro qualcosa, ma anche su concetti positivi di lotta per qualcosa.

Il partito marxista-leninista non possano incrociare le braccia aspettando che le condizioni oggettive e soggettive createsi attraverso il complesso meccanismo della lotta di classe abbiano tutti i requisiti necessari perché il potere cada nelle mani del popolo come un frutto maturo. Il partito è l’avanguardia della classe operaia, dirigente della «propria» classe, che sa mostrare ad essa il cammino della vittoria e accelerare il passo verso nuove situazioni sociali.

Ed è logico che questo partito sia un partito di classe. Un partito marxista-leninista non potrebbe non esserlo: la sua missione è cercare la strada più breve per arrivare alla dittatura del proletariato, e i suoi militanti più preziosi, i suoi quadri dirigenti e la sua tattica, escono dal seno della classe operaia.

È inconcepibile che si inizi la costruzione del socialismo con un partito della classe borghese, con un partito che avesse tra i suoi membri un buon numero di sfruttatori e questi avessero il compito di fissarne la linea politica. Evidentemente, un raggruppamento di questo tipo può solamente dirigere la lotta in una fase di liberazione nazionale, fino a certi livelli e in determinate circostanze. Nella fase successiva, la classe rivoluzionaria diventerebbe reazionaria e si instaurerebbero nuove condizioni che portano necessariamente alla ribalta il partito marxista-leninista come dirigente della lotta rivoluzionaria.

Se il partito marxista-leninista è capace di prevedere le fasi storiche successive ed è capace di trasformarsi in bandiera e avanguardia di un popolo ancor prima di aver liquidato la fase della liberazione nazionale – nell’ipotesi dei paesi colonizzati – allora quel partito avrà compiuto una duplice missione storica e potrà affrontare i compiti della costruzione del socialismo con più forza, con più prestigio tra le masse.

Perché essere comunisti oggi

Il partito marxista-leninista, Ernesto Che Guevara

O que é marxismo-leninismo?